Mar. Ott 15th, 2024
biografia di Alessandro Manzoni

Alessandro Manzoni, uno dei più grandi scrittori non solo del XIX secolo, ma della letteratura europea dal Medioevo in poi, nasce a Milano il 7 marzo 1785, dal conte Pietro Manzoni, un benestante proprietario terriero originario di Barzio in Valsassina, e da Giulia Beccaria figlia di Cesare Beccaria, il celebre illuminista autore dell’opera Dei delitti e delle pene, contro la tortura e la pena di morte.

Quando Giulia sposa Pietro Manzoni ha vent’anni e lui quarantasei, due più del suocero. È un matrimonio combinato, al quale la giovane acconsente malvolentieri e che subisce con insofferenza. Così quando nasce Alessandro, i soliti pettegoli danno per certo che la paternità del bambino sia da attribuirsi a Giovanni, il più giovane e avvenente dei conti Verri.

Pietro Manzoni, però, riconosce il figlio e lo affida a una balia, dal carattere dolce e allegro, che abita alla cascina Costa, tra Malgrate e Mozzate, nei dintorni di Lecco.

Ma il matrimonio di convenienza tra i coniugi Manzoni dura poco; sin dai primi mesi, costretta a vivere con un marito più vecchio di lei, insieme a sette cognate nubili e a un cognato canonico, Giulia si dimostra insofferente a un’atmosfera buia e retrograda, e comincia a frequentare la casa dei Verri, dove si innamora di Giovanni.

Con la nascita del bambino la situazione in casa Manzoni diventa sempre più fredda, tanto che nel 1791 Giulia chiede e ottiene la separazione legale, che verrà ratificata dal tribunale nel febbraio 1792. Alessandro secondo la legge resta con il padre.

A sei anni il piccolo Alessandro entra nel collegio dei padri Somaschi, prima a Merate e poi, nel 1796, a Lugano. Qui conosce padre Carlo Felice Soave (1749-1803), autore fra l’altro di Novelle morali per l’infanzia, un uomo rigido ma di grande prestigio e dirittura morale, l’unico tra i suoi insegnanti che ricorderà con stima. Due anni dopo eccolo a Milano, nel collegio dei Nobili, gestito dai Barnabiti: dieci anni in tutto, durante i quali riceve una buona educazione classica, a giudicare da come traduce Virgilio e Orazio. Dalla scuola, però, esce esasperato e ribelle, forse anche amareggiato dalla sua situazione familiare, ma gratificato da alcune amicizie che dureranno tutta la vita, come quella di Ermes Visconti (1784-1841).

I genitori si interessano poco di lui; già dal 1792 Giulia Beccaria, che nel frattempo, abbandonando casa Verri, aveva conosciuto il nobile e ricco Carlo Imbonati, col quale si stabilisce prima a Londra e poi a Parigi, dove viene accolta favorevolmente anche grazie alla fama del padre, finché nel 1805 il nobile muore improvvisamente lasciandola erede di una cospicua fortuna.

L’adolescente Manzoni, fu in pratica abbandonato dalla madre, ed ebbe scarsi contatti umani con il padre, che in lui vedeva l’immagine del suo fallimento matrimoniale e di una donna che non era stato capace di amare e conquistare, anche a causa di un carattere irresoluto e incline a una spiritualità umana e religiosa di maniere fatta di apparenze più che di sostanza. L’adolescenza di Alessandro trascorse quindi senza quegli affetti familiari che sono indispensabili per creare quel vero equilibrio tra vita interiore e vita sociale che è alla base di una vita che può definirsi felice: ogni altro equilibrio è destinato a spezzarsi al primo soffio veramente impetuoso, che spazza via ogni ostacolo che non è profondamente radicato.

Intanto nel 1798 Alessandro ritorna a Milano, che nel frattempo era diventata la capitale della repubblica Cisalpina, dopo il Trattato di Campoformio, col quale Venezia cade sotto l’Impero austriaco e Napoleone consolida il suo dominio sull’Italia settentrionale, nel collegio Longone dei Padri Barnabiti. Nel 1801 completa gli studi e ritorna in famiglia nel palazzo di via san Damiano, alternando i soggiorni nella villa estiva al Caleotto, presso Lecco; ma vive praticamente isolato da padre, insieme alla servitù, pur conoscendo ospiti abbastanza occasionali come Monti, Foscolo e Cuoco; dello stesso anno è la sua prima opera importante, il poemetto di stampo classicheggiante, secondo gusti montiani, Del trionfo della libertà, frutto anche della sua insofferenza al metodo educativo di Barnabiti e Somaschi, del suo distacco dal cattolicesimo e dell’entusiastico avvicinamento agli ideali illuministici e ai valori della Rivoluzione Francese, portati a Milano dall’armata Napoleonica.

Alessandro, nella casa del conte Manzoni, respira un’atmosfera malinconica, accresciuta dalla tetraggine delle sette zie nubili, una delle quali ex monaca, e dallo zio monsignore che porta la natta all’occhio. Pure, riesce a divertirsi, come tutti i giovani. Ama il teatro, va a giocare al Ridotto della Scala, conosce il poeta Vincenzo Monti (1754-1828) che gli sembra un’immagine autorevole da imitare, ammira le idee che diffonde Napoleone in tutta Europa, anche se il personaggio lo lascia perplesso.

La vocazione poetica del sedicenne Manzoni si manifesta con un sonetto autobiografico, Autoritratto, in cui si presenta: «Capel bruno; alta fronte; occhio loquace…» e poi, per quanto riguarda il carattere, ammette di essere «Duro di modi, ma di cor gentile», anche se confessa, alla fine, di essere un po’ confuso circa il giudizio da dare di se stesso, «Poco noto ad altrui, poco a me stesso. / Gli uomini e gli anni mi diran chi sono». È un adolescente in cerca della propria identità.

Il sonetto riecheggia lo stile di Vittorio Alfieri (1749-1803) che, per i giovani del tempo, è una sorta di idolo di cui si ammira la generosità, l’insofferenza per ogni forma di ipocrisia, il carattere ribelle, l’incarnazione del genio incompreso, in lotta contro ogni forma di mediocrità.

Da poco uscito di collegio, respirando l’aria ricca di ideali illuministici della capitale lombarda, il giovane Manzoni scrive il suo primo poemetto in quattro canti, intitolato Del trionfo della libertà (1801), in cui, imitando il suo “maestro” Vincenzo Monti, e anche Dante, condanna ogni forma di tirannide.

L’esordio poetico risale al 1802: Francesco Lomonaco (1772-1810), storico e saggista esule da Napoli dopo la fallita rivoluzione del 1799, inserisce il sonetto manzoniano Per la vita di Dante, in apertura delle sue Vite degli eccellenti italiani. In questi anni, incoraggiato dai consensi e dall’amicizia di poeti come Ugo Foscolo (1778-1827) ed Ermes Visconti (con la sorella del quale, l’angelica Luisina, vive l’emozione del primo amore, ma presto la famiglia scoraggia le assidue visite del tenero poeta), scrive l’ode Qual su le Cinzie cime (1802), in cui si sente l’influsso della poesia del Parini e del Foscolo, l’idillio Adda (1803), una sorta di invito al Monti perché sia suo ospite nella villa paterna del Caleotto, sul lago di Como, e i quattro Sermoni, in cui, alla maniera di Orazio, elabora una satira sferzante contro il malcostume del tempo. Il giovane comprende che il poeta deve coltivare in sé una fortissima tensione morale per trasformare l’opera d’arte in strumento educativo per l’umanità.

Questo è il retaggio di un altro grande poeta che, scomparso da qualche anno, ancora irraggia la sua personalità su tutta la cultura milanese e dà un carattere di forte impegno all’illuminismo lombardo: Giuseppe Parini (1729-1799).

A diciott’anni, nel 1803, Alessandro Manzoni è già noto ai più grandi intellettuali del tempo, a cui chiede giudizi e valutazioni sulla sua produzione: sottopone le poesie al Monti, che ha per lui parole lusinghiere. Diviene amico di Vincenzo Cuoco( 1770-1823), esule a Milano come il Lomonaco, e autore del Saggio sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801), col quale inorridisce il poeta raccontando le sanguinose repressioni borboniche. Da lui riceve lo stimolo a conoscere il pensiero di Giambattista Vico e si entusiasma per la ricerca storica. L’idea di storia, come analisi delle condizioni di un popolo e come insieme degli avvenimenti in cui è protagonista la massa, si insinua in questi anni nella mente dell’autore dei Promessi Sposi, il “romanzo degli umili”.

Milano è una città stimolante e affascinante per il ragazzo che ha conosciuto, fino a sedici anni, i quieti paesaggi del lago di Como (contemplati dalla villa paterna del Caleotto, a Lecco) e gli austeri corridoi dei collegi. Tuttavia egli lascia la Lombardia con entusiasmo, quando la madre lo chiama a Parigi, nel 1805.

Nel 1804 il Monti si trova a Parigi, ospite dell’Imbonati e di Giulia e le parla di quel figlio lontano e praticamente sconosciuto. Ecco rifarsi viva, dopo anni di silenzio, questa figura materna così spregiudicata e anche un po’ egoista, a ben vedere. Forse è il timore della solitudine, forse è il bisogno di liberarsi dai sensi di colpa. Non si sa che cosa induca Giulia a richiedere la presenza del figlio. Alessandro riceve l’invito: chiede i soldi per il viaggio al padre, che subito glieli concede; ma mentre si accinge a partire, viene raggiunto dalla notizia della morte dello stesso Imbonati, lasciando erede Giulia dei suoi beni, tra cui la villa di Brusuglio, poco fuori Milano. Il ventenne Alessandro, nel settembre 1805 raggiunge Parigi e più che una madre conosce una donna, afflitta per la recente perdita: si fondono due dolori ma nasce anche lentamente e con una certa fermezza un affetto che in qualche modo ripaga del mancato amore degli anni trascorsi. Comincia così, per lui, uno dei momenti più costruttivi della sua formazione intellettuale

Parigi e una madre:

«Giulia Beccaria aveva quarantatrè anni: coi capelli biondi, quasi fulvi, gli occhi grigi, il naso aquilino, il temperamento virile, ardimentoso, orgoglioso, imperioso, lo spirito vivace e acuto, conservava ancora quella grazia che aveva fatto di lei la regina dei salotti illuministi di Milano»

L’intesa è immediata: il giovane subisce il fascino della madre e accoglie le sue confidenze, consola il suo dolore. Per lei scrive il Carme in morte di Carlo Imbonati (1806), in cui immagina che il defunto gli appaia in sogno per suggerirgli il corretto comportamento dell’uomo d’onore, che deve «conservar la mano / pura e la mente…il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida». Pare una sorta di decalogo morale al quale il Manzoni si atterrà per tutta la vita, in cui esprime i suoi ideali umani e letterari impregnati di coerenza etica e una analisi concreta e reale della storia dell’uomo e della sua evoluzione.

Egli condanna anche la cultura disimpegnata o, peggio, utilizzata per motivi economici, abbassata a merce in vendita. Impossibile non ricordare quella sorta di commovente testamento intellettuale e morale che è l’ode La caduta di Giuseppe Parini.

Il rigore morale di questi affiora nel disgusto manzoniano per gli adulatori dei potenti, che riducono la letteratura a «un vergognoso / … di lodi mercato e di strapazzi».

Negli anni trascorsi a Parigi, fino al 1810, Manzoni ha la possibilità di allargare il proprio orizzonte culturale con amicizie che risulteranno decisive per la sua formazione artistica e letteraria. Frequenta il salotto di Sophie Grouchy vedova del filosofo Condorcet, morto suicida negli anni della Rivoluzione Francese, prima ad Auteuil e poi a Meulan, in una dolce casa di campagna detta la Maisonnette, una bella villa a quaranta chilometri dalla capitale, da dove si gode un panorama stupendo sulla Senna.

Alessandro conosce quello che sarà un grande amico di tutta la vita, Claude Fauriel (1772-1844), il filologo che insieme a Madame de Staël promosse la cultura romantica in Francia e che nel frattempo, troncando la sua relazione amorosa proprio con la Staël, era diventato l’amante di Sofia, con la quale convivrà per una ventina d’anni senza matrimonio, fino alla morte della donna. Claude Fauriel lo introduce nel gruppo degli Ideologi, intellettuali che si oppongono al regime napoleonico, perché ha soffocato le libertà propugnate durante la rivoluzione del 1789. Appartengono a questo movimento personaggi come il filosofo Antoine Destutt de Tracy (1754-1836), il medico-fisiologo-filosofo naturalista Pierre Jean Cabanis (1757-1808). Sotto la loro guida Manzoni si apre a una prospettiva letteraria europea, e impara che ogni ricerca deve essere condotta «con massimo scrupolo ed evitando di trarne nessuna deduzione di cui non si fosse assolutamente certi». Nasce da qui quell’atteggiamento mentale che indurrà Manzoni a ricostruire con molto scrupolo storiografico l’ambientazione delle opere tragiche e del romanzo.

Ma c’è di più: gli ideologi ribadiscono l’esigenza di un profondo rigore morale. Ciò li avvicina al pensiero del Giansenisti. Sono, questi, seguaci del teologo olandese Cornelis Jansen (latinizzato Giansenio). Egli, nella sua opera Augustinus (1640) afferma che solo la Grazia divina può salvare l’uomo, la cui natura è corrotta e inevitabilmente macchiata di colpe. Il Giansenismo era fiorito a Parigi nel Seicento, grazie ai filosofi e teologi dell’abbazia di Port-Royal, che, però, era stata distrutta nel 1710 da re Luigi XIV. Il pensiero dei Giansenisti sopravvive nell’Ottocento presso i religiosi e gli intellettuali che insistono sulla necessità di un comportamento moralmente irreprensibile, in piena sintonia con la ragione.

In questi mesi Alessandro legge opere di grandi moralisti e filosofi del Seicento, come Jacques Bossuet (1627-1704) e Blaise Pascal (1623-1662), ma si appassiona anche alla lettura di Voltaire e, grazie a Fauriel , comincia ad accostare le idee romantiche, attraverso il pensiero del tedesco August Wilhelm Schlegel (1767-1845).

Nel 1807 ecco la pubblicazione di un poemetto, Urania (forse dedicato a Sophie, che gli amici chiamavano Uranie) sulla funzione civilizzatrice della poesia. Lo scrittore sembra ripiegare sulle posizioni del classicismo, accettando gli schemi fissati dal Monti e dalla tradizione letteraria, ma il classicismo e la mitologia sono più nella forma esteriore che nell’intimo significato; il poemetto rappresenta l’opera civilizzatrice e consolatrice dell’arte, in cui le Muse e le Grazie inviate in terra da Giove costituiscono un simbolo, quasi cristiano, delle virtù che fanno corona a Dio, ma verrà ben presto sconfessato dal Manzoni che scrive: «Non è così che bisogna far versi; forse ne farò di peggiori, ma non ne farò mai più come quelli». In effetti, l’operetta è piuttosto noiosa e, a detta dell’autore medesimo, incapace di suscitare l’interesse del lettore.

In quegli anni accompagna la madre tre volte in Italia, a Torino nel 1806, a Genova nel febbraio 1807 per conoscere Luigina Visconti nell’ambito di una combinazione matrimoniale che non si realizzerà, e nel settembre dello stesso anno a Milano, dopo il fallimento di una nuova combinazione matrimoniale con la giovane figlia dell’amico Destutt de Tracy. Sulle rive del lago di Como, sotto la guida della madre, conosce Enrichetta Blondel, figlia di banchieri ginevrini stabilitisi in Italia: anche per il carattere dolce e sensibile della giovane Enrichetta (che aveva solo 16 anni, contro i 22 del Manzoni): ancora una volta Giulia dimostra di ben conoscere il cuore del figlio e di saper indovinare la donna giusta per lui. La nuova combinazione ha successo.

Il matrimonio e la conversione:

Così la sedicenne Enrichetta Blondel entra nella vita di Manzoni per lasciare una traccia importante. I due si sposano con rito civile nel Municipio di Milano il 6 febbraio1808 e la sera stessa le nozze sono benedette con rito evangelico nella casa della sposa che pratica, infatti, la religione calvinista. Il padre di Enrichetta, Francesco Luigi Blondel, è un ricco imprenditore ginevrino, che possiede filande lungo l’Adda e inizia, proprio in quegli anni, l’attività di banchiere a Milano, dove acquista palazzo Imbonati.

Nel giugno del 1808 la famigliola Manzoni riparte per Parigi. I tre sono ottimamente assortiti e molto felici. A proposito di Enrichetta, sappiamo che è «bionda, mite e graziosa, tanto discreta e pronta a nascondersi quanto la madre di Manzoni era teatrale: tanto ordinata e precisa, quanto la madre si abbandonava a un geniale disordine».

Alessandro non esita a dichiararsi «estremamente felice» di aver accontentato Giulia e di constatare che la moglie nutre per la suocera una tenerezza rispettosa e devota, simile a quella di una figlia. Nella capitale francese nasce la primogenita, Giulia Claudia, nel dicembre 1809, che nell’agosto dell’anno seguente viene battezzata nella chiesa giansenista di Meulan con rito cattolico, così come prevedeva il contratto matrimoniale (che prevedeva che i figli nati dalla loro unione sarebbero stati allevati nel culto della religione cattolica).

Il riserbo mantenuto dallo scrittore ci impedisce di conoscere le tappe che portano i coniugi Manzoni verso la religione cattolica.

Certamente Enrichetta si annoia durante le frequenti visite alla Maisonnette; certamente la maternità la induce a riflettere sui suoi doveri nei confronti della creaturina nata da lei e a lei affidata, non solo per le cure legate alla sopravvivenza, ma anche per l’educazione e la sua crescita morale: come rendere Giulia una buona cristiana se lei stessa si sente confusa e incerta? Nasce così il bisogno di conoscere più da vicino la fede cattolica a cui, per contratto matrimoniale, come abbiamo detto, ha il dovere di avviare la figlia; e Alessandro le è vicino.

Così si affidano all’abate giansenista Eustachio Dègola (1761-1826) le cui dotte conversazioni la guidano progressivamente all’abiura del calvinismo e all’adesione alla fede cattolica, il 22 maggio del 1810, nella chiesa di Saint Séverin, a Parigi. Già nel settembre 1809 i due coniugi avevano fatto istanza al Pontefice Pio VII affinché il loro matrimonio venisse nuovamente celebrato, ma con rito cattolico, che avviene nel febbraio 1810.

A queste pacate riflessioni, in cui le domande di Enrichetta, testimoni di una sincera volontà di trovare il vero Dio, sono costantemente corroborate dalle sapienti risposte dell’abate (il cui rigore di giansenista ha una rispondenza profonda nell’austerità del calvinismo di Enrichetta), non è estraneo lo stesso Manzoni. Fino ad allora è stato indifferente alle questioni di fede, forse per un’intrinseca e giovanile polemica contro l’assillante educazione religiosa impartita nei collegi della sua infanzia e adolescenza. Ma ora il problema gli viene prospettato da una nuova angolatura: l’ansia della moglie di trovare un’autentica via di comunicazione con Dio poco a poco lo contagia. Risale a quel periodo la «conversione» anche del Manzoni che, a differenza di Enrichetta, non lascia una fede per abbracciarne, però un’altra, ma ritrova in sé quei valori che ha sempre trascurato.

Molti amici e conoscenti chiederanno al Manzoni, lungo l’arco della sua esistenza, quale sia stato il momento della “folgorazione”, l’attimo decisivo in cui ha deciso di recuperare la fede. Il Manzoni non dà risposta, al massimo si lascia andare a frasi sibilline: «È stata la grazia di Dio, mio caro, è stata la grazia di Dio», confiderà molti anni più tardi a Stefano Stampa, figlio della seconda moglie teresa Borri.

Forse può essere d’aiuto un episodio della sua vita, capitato il 2 aprile 1810, a Parigi. Con la moglie sta assistendo ai festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. Separati dalla folla, i due si perdono di vista e Manzoni si rifugia frastornato nella chiesa di san Rocco. Lo coglie il panico e la disperazione, ma forse è proprio quello il momento in cui, secondo le parole riportate dalla figlia Vittoria «quel Dio che si rivelò a san Paolo sulla via di Damasco» ha avuto pietà di lui. Infatti, appena esce dalla chiesa, ritrova Enrichetta sana e salva.

Manzoni si riaccosta alla fede cattolica attraverso la mediazione giansenista: questo fatto lascia un’impronta abbastanza forte sulla sua visione dell’uomo, perché gli inocula quel pessimismo che poi si estende alla concezione della storia, come ammasso irrazionale di fatti, disciplinati solamente dalla Provvidenza di Dio e guidati, in tal modo, a un fine buono. Inoltre l’influsso giansenista rafforza il naturale rigore morale del Manzoni e conferma l’austerità del comportamento.

Tornato a Milano con la famiglia, prosegue la propria “ricerca” sotto la guida spirituale di monsignor Luigi Tosi, giansenista come il Dègola, allora canonico della chiesa di Sant’Ambrogio e poi vescovo di Pavia, che influisce in notevole misura non solo sulla sua formazione religiosa, ma anche sui suoi programmi letterari.

La famiglia Manzoni

Nell’inverno del 1810 i Manzoni si stabiliscono definitivamente a Milano, ma alternano la vita in città con frequenti soggiorni a Brusuglio: sono gli anni più felici, vissuti all’insegna dell’accordo perfetto.

Mentre Alessandro si diverte a piantare platani, abeti, robinie, cipressi, ortensie, rododendri, la Magnolia grandiflora, il cedro del Libano, vitigni del Tirolo, di Bordeaux e della Borgogna, nonché a sperimentare la piantagione del cotone, meditando fra sé le idee che tradurrà poi nei versi delle sue opere, Enrichetta genera figli, li allatta e li educa: nel 1813 nasce Pietro, nel 1815 Cristina, nel 1817 Sofia, nel 1819 Enrico. Nel 1821 viene alla luce Clara, che muore prima ancora di compiere due anni, nel 1822 nasce Vittoria, nel 1826 Filippo, nel 1830 l’ultimogenita, Matilde. Di questi soltanto Vittoria ed Enrico sopravviveranno al padre.

Brusuglio, con l’abitazione milanese di via del Morone e poi di piazza Belgioioso, brulica di amici di Manzoni, che sono anche i più significativi scrittori e intellettuali del tempo: Ermes Visconti, Giovanni Berchet (1783-1851), Tommaso Grossi (1790-1853), Carlo Porta (1775-1821), Massimo d’Azeglio (1798-1866), che diventerà suo genero, e poi, più tardi, i fiorentini Gino Capponi (1792-1876) e Giuseppe Giusti (1809-1850). Gli amici non sono sicuri di conoscere Manzoni in ogni aspetto del suo carattere complesso: qualcuno fra loro lo definisce «un enigma». Pure è capace di farsi amare, per il suo atteggiamento pacato e mite, per il suo rispetto profondo per il prossimo, per la conversazione un po’ incerta (talvolta balbetta) ma tanto garbata, da suscitare nell’interlocutore una profonda simpatia. Così lo presenta Tommaso Grossi in una lettera al toscano Giampiero Viesseux, nel 1826: «…un uomo che dall’assenza d’ogni singolarità è reso… affatto singolare e mirabile. Una statura comune, un volto allungato, vaiuolato, oscuro, ma impresso di quella bontà che l’ingegno…rende più sincera e profonda: una voce di modestia e quasi timidità, cui lo stesso balbettare un poco, giunge come un vezzo alle parole, che paiono essere più mature e più desiderate: un vestito dimesso, un piglio semplice, un tuono famigliare, una mite sapienza che irradia per riflessione tutto ciò che a lui s’avvicina».

Da Parigi giunge in visita anche Claude Fauriel, al quale è affezionatissima la piccola Giulia, mentre, in casa di amici comuni, Alessandro conosce il filosofo Antonio Rosmini (1797-1855), che sarà uno dei suoi più cari amici e influenzerà la sua concezione religiosa e artistica. Nel settembre del 1819 i Manzoni partono per Parigi, dove sono ospiti per più d’un mese nella casa di Sophie de Condorcet, la Maisonnette: a muoversi, come dice lo stesso capofamiglia, è un’«arca di Noè» di undici persone: i genitori, cinque figli, nonna Giulia e tre domestici.

Nella capitale francese il Manzoni frequenta lo storico Augustin Thierry (1795-1856) e il filosofo Victor Cousin (1792-1867); quest’ultimo tornerà con lui in Italia e sarà ospite a Brusuglio e a Milano. Il viaggio a Parigi, che si protrae sino all’agosto 1820, risulta proficuo per la maturazione delle idee letterarie e l’enucleazione delle opere più significative del poeta.

  • Nel 1812, sotto la guida spirituale di Monsignor Tosi, come abbiamo vista, mette a punto il disegno di dodici Inni sacri che hanno per tema le principali festività religiose dell’anno ecclesiastico; di questi ne porta a termine solo cinque:
    La Risurrezione (aprile-giugno);
  • Il nome di Maria (novembre 1812 – aprile 1813);
  • Il Natale (luglio – settembre 1813);
  • La Passione (marzo 1814 – ottobre 1815);
  • La Pentecoste (incominciato nel giugno 1817, ripreso nell’aprile 1819 e portato a termine tra settembre e ottobre 1822).

A questi cinque Inni si aggiungeranno le Strofe per una prima comunione composte a più riprese a partire dal 1832, che formeranno un gruppo di poesie religiose approvate dall’autore.

Negli stessi anni, di particolare rilievo sono le quattro odi civili:

  • Aprile 1814, una delle opere indubbiamente meno felici, sia poeticamente che politicamente;
  • Il proclama di Rimini, che a seguito della sconfitta del Murat a Tolentino rimane interrotta al 51° verso, ma è già rappresentativo delle idealità patriottiche del poeta;
  • Marzo 1821, che rappresenta la vera dichiarazione politica e patriottica del Manzoni, con la sua aspirazione a un’Italia unita e libera dallo straniero;
  • Il cinque maggio, scritto in occasione della notizia della morte di Napoleone Bonaparte.

Il 15 gennaio 1816 il Manzoni dà avvio alla composizione della prima delle sue due tragedie, Il conte di Carmagnola, che occuperà molto del suo lavoro, come testimoniano le lettere scritte al Fauriel e la Prefazione alla tragedia stessa.

Il 14 settembre, dopo aver affidato il manoscritto della tragedia all’amico Ermes Visconti perché ne curi la stampa dopo averla sottoposta all’esame della censura (verrà pubblicata nel gennaio dell’anno seguente), il Manzoni parte per Parigi, dove soggiorna fino al luglio 1820. Al ritorno a Milano comincia un’intensa stagione creativa, che parte con la tragedia Adelchi, passa attraverso l’Inno sacro La Pentecoste e le due Odici civili maggiori del ’21 e si concluderà nel 1827 con la prima edizione dei Promessi Sposi.

Abbiamo a lungo parlato del Manzoni scrittore e intellettuale, ma come si presenta nella vita familiare e in veste di padre? Chi si aspettasse da lui l’atteggiamento calmo, rasserenante e sicuro del patriarca resterebbe deluso. Alessandro rivela tutte le caratteristiche del nevrotico. Lo studioso Pietro Citati elenca in dettaglio tutte le sue fobie: a tavola viene preso dalle vertigini, a passeggio teme che le case gli crollino addosso o che una voragine lo inghiottisca. Non sopporta la folla, la terra bagnata e il cinguettio dei passeri. Se si avvicina un temporale si sente venir meno le forze: «Vittima di questi traumi, trascorreva giorni e settimane senza far nulla…Con la mente atona e vuota e lo sguardo perduto, spesso dovette temere di precipitare anche lui nel baratro della dissociazione nervosa».

Con il passare degli anni Alessandro Manzoni impara a difendersi da queste assurde paure, mettendo in atto una complicata strategia che gli consente di convivere con la sua nevrosi: conduce una vita meticolosa, cammina venticinque minuti prima del pranzo, pesa i suoi vestiti secondo la temperatura, va a letto sempre alla medesima ora e mangia sempre gli stessi cibi, prende a colazione il cioccolatte macinato in casa… Se l’angoscia lo assale, esce di casa e cammina per ore e ore lungo le strade o per la campagna: percorre anche trenta o quaranta chilometri al giorno, come se fosse inseguito, fino a tornare a casa spossato, ma calmo.

Anni di lutti e amarezze

Il giorno di Natale 1833 muore Enrichetta Blondel: è il primo di una lunga serie di lutti che si abbattono su Alessandro Manzoni. Scrive Pietro Citati: «Pochi anni dopo la conclusione dei Promessi Sposi, la linea della sua vita cominciò a discendere: il breve fervore creativo si spense, e a meno di quarantacinque anni Manzoni diventò il puntiglioso revisore, l’interminabile editore di sé stesso». L’anno dopo si spegne la primogenita Giulietta, da poco andata sposa a Massimo D’Azeglio: ha solo venticinque anni. Turbato da questi lutti il Manzoni inizia l’inno Il Natale 1833, che rimane incompiuto.

Nel 1837 sposa Teresa Borri, vedova di Decio Stampa e madre di un ragazzo timido, Stefano Stampa, che saprà intessere con il grande patrigno un rapporto di stima, affetto, venerazione. Devozione è il termine che si addice maggiormente al comportamento di Teresa, che dedica la vita alla protezione della salute, creatività, fama del marito: gli amici la paragonano scherzosamente a una vestale, che custodisce qualcosa di sacro con vigile solerzia e passione, nonostante anche lei lamenti sempre qualche acciacco, reale o immaginario.
Nel maggio del 1841 muore Cristina, moglie di Cristoforo Baroggi, appena venticinquenne, seguita due mesi dopo da Giulia Beccaria. Nel marzo del 1845 è la volta di Sofia, di ventisette anni, sposata a Lodovico Trotti. Lo stesso anno Vittoria sposa Giovanbattista Giorgini, uomo politico di principi liberali e moderati, di cui si ricordano studi giuridici e storici. Vittoria si trasferisce a Pisa, dove, due anni dopo, la segue Matilde, malaticcia: quest’ultima morirà nel marzo 1856.

Ai lutti si aggiungono problemi economici: l’incendio del 1848 a Brusuglio, i cattivi raccolti, i debiti dei figli maschi intaccano un patrimonio oculatamente amministrato che ha consentito, fino ad allora, di vivere in agiatezza. Dei tre figli maschi, Filippo è già in prigione per debiti a ventisei anni, mentre Enrico dilapida il patrimonio della ricchissima moglie, con iniziative e speculazioni sbagliate. Un momento “eroico” della vita di Filippo è quando combatte contro gli austriaci il 18 marzo 1848, durante le cinque giornate di Milano. Viene preso prigioniero e trasferito a Vienna. Filippo morirà nel 1868, in miseria, lasciando quattro figli.

L’incontro con Antonio Rosmini

L’insurrezione di Milano non sortisce l’effetto sperato e nell’agosto del 1848 gli Austriaci ritornano in città. Il Manzoni ripara a Lesa, sul lago Maggiore, dove Stefano Stampa lo ospita insieme con sua madre Teresa , per due anni, nella bella villa degli Stampa. Durante questo soggiorno si lega d’amicizia con il filosofo Antonio Rosmini (1797-1855), che già nel 1826 gli ha presentato Niccolò Tommaseo. Rosmini risiede nella vicina Stresa, una bella cittadina sulle rive del lago Maggiore. Frutto di questa amicizia è il dialogo Dell’invenzione (1850), in cui Manzoni sostiene che l’opera letteraria non deve lasciare spazio all’invenzione fantastica, ma deve farsi portavoce del vero, soprattutto del vero storico. È indubbio che, sotto un certo aspetto, viene sconfessata l’ispirazione da cui hanno preso le mosse i Promessi Sposi. Il Rosmini suggerisce anche i temi che sono enucleati nel trattato Del piacere (1851).

Segue un decennio di riflessioni storiche e ricerche linguistiche, le quali convergono nel saggio Sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione del 1859, composto nel 1860 (ma pubblicato postumo nel 1889).

Nel 1860 Manzoni accetta la nomina a senatore del Regno d’Italia. A Torino partecipa alla seduta del Senato che conferisce a Vittorio Emanuele II il titolo di re d’Italia, il 26 febbraio 1861. Il disegno di legge passa alla Camera il 14 marzo e ne è relatore il genero dello scrittore, Giovan Battista Giorgini.

Nell’agosto del 1861 muore anche la seconda moglie, Teresa Borri, mentre nel 1856 è scomparso Claude Fauriel e, l’anno prima, nel 1855, il Manzoni ha perso il conforto del grande amico Rosmini. Qual è l’influsso del filosofo nel pensiero del Manzoni? Egli ha definito, aderendo al pensiero dell’abate, il concetto di creatività come scintilla divina che si esprime attraverso il genio dell’uomo. Con il suo aiuto, inoltre, ha approfondito i concetti della morale cattolica, eliminando ogni traccia dell’antico giansenismo.

La fine

Alessandro Manzoni resta lucidissimo sino alla fine della sua vita. Muore alle sei di sera del 22 maggio 1873, dopo penosa agonia, quasi un mese dopo la morte del figlio Pietro. La sua decadenza è cominciata nel gennaio precedente, quando, uscendo dalla chiesa di San Fedele, a Milano, cade battendo la testa. I suoi funerali sono un momento solenne a cui partecipa tutta Milano. Il corteo funebre, attraverso corso Vittorio Emanuele, giunge sino al Cimitero Monumentale e, l’anno dopo, nel primo anniversario della morte, Giuseppe Verdi gli dedica la sua Messa di Requiem, che personalmente dirige la mattina nella chiesa di San Marco e la sera nel teatro alla Scala.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *